Una volta lessi che, in un’intervista del 1920 (!), Sir Thomas Beecham, fondatore della London Philarmonic Orchestra, aveva dichiarato senza mezzi termini:
“Non ci sono donne compositrici, non ci sono state e non ci saranno mai!”.
La forza dell’affermazione mi colpì. Sarà vero? Mi chiesi. Con un minimo sforzo mnemonico, raggiunsi la piena consapevolezza che in tanti anni di formazione e di esperienza professionale come musicista non mi era mai capitato di eseguire brani scritti da compositrici donne, né per studio né in concerto.
Che sir Beecham avesse ragione?
L’episodio mi spinse a cercare di dare una risposta alle mie curiosità riguardo alla presenza femminile nella storia della musica e mi resi ben presto conto che la questione essenzialmente si riduceva e si riduce tuttora, per lo meno dal punto di vista del senso comune, a due fondamentali pregiudizi.
Il primo si esprime chiaramente nel pensiero sopra riportato: “non ci sono donne compositrici, non ci sono state, non ci saranno mai”. Pregiudizio largamente diffuso anche tra i professionisti della musica fin dai secoli passati, talmente radicato che persino Clara Schumann, eccellente pianista e interprete della musica del ben più famoso marito Robert, compositrice fin dall’adolescenza di lieder e brani per pianoforte, nel 1839 scriveva nel suo diario:
“Una donna non deve voler essere compositrice. Nessuna ne è stata capace fino ad oggi, perché dovrei sperare di riuscirci io?”
E questo perché le compositrici, numerose e prolifiche nella storia accaduta, sono pressoché scomparse dalla storia tramandata. Sono state dimenticate, o meglio sono state “negate” dalla storiografia ufficiale che ha dimostrato nuovamente di essere storia di uomini scritta da uomini e che colloca la dimensione del privato, territorio in cui da sempre è stata confinata qualsiasi velleità creativa femminile, sullo sfondo delle “azioni” e dei “personaggi“.
È solo da pochi decenni che il lavoro di ricercatori e studiosi – e per l’Italia non possiamo non ricordare il pionieristico lavoro Donne in musica di P.Adkins-Chiti – ha rivelato quanto la presenza di compositrici nella storia della musica di tradizione colta sia costante e rilevante, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, e ci ha al contempo restituito un patrimonio artistico importante e di pregio.
Ed è interessante notare come anche nell’ambito della musica si sia riscontrato quanto è avvenuto in altri contesti storici, culturali e artistici e cioè che il problema di nuove fonti, benché indubbiamente esistente,non fosse quello principale. Come ha giustamente sottolineato Maura Palazzi, ricercatrice di Storia economica e sociale e di Storia delle donne, “il problema principale è piuttosto quello di nuove domande con cui interrogare le fonti: […] le donne sono state ignorate dagli storici non perché i documenti le ignoravano, ma perché la loro presenza era giudicata irrilevante e quindi non presa in considerazione né, tanto meno, valutata per la sua specificità”.
E questa considerazione mi riporta immediatamente a quello che ho definito come il secondo fondamentale pregiudizio sulla musica al femminile. Se le donne compositrici ci sono, ci sono state e presumibilmente non smetteranno di esserci, perché finora sono state così poco considerate? Perché la loro presenza è stata giudicata “irrilevante”? La risposta del senso comune, parlando schiettamente, suona più o meno così: “se nessuno conosce la musica di queste donne, evidentemente non erano poi così brave…”Tentando di sfatare questo secondo pregiudizio ammetto di provare la sensazione di avventurarmi in un terreno molto più insidioso. Forse perché per mantenere una certa credibilità di “addetta ai lavori”dovrei perlomeno tentare di esprimere un’opinione il più possibile oggettiva. Ma in musica, ed in generale nell’arte, si sa, è molto difficile essere oggettivi. Va a finire che si riduce il discorso ad una disquisizione puramente tecnica, in questo caso tecnico-compositiva.
Potrei dunque affrontare questo pregiudizio dimostrando, partiture alla mano, quanto sia brillante la scrittura di molte compositrici, quanto siano innegabili, ad esempio, l’invenzione melodica di Louise Farrenc o la conoscenza strumentale di Clara Schumann o, ancora, l’arditezza armonica di Mel Bonis, tutte caratteristiche che hanno fatto sì che queste musiciste fossero assolutamente apprezzate dai loro colleghi maschi e dal pubblico del loro tempo.
Oppure potrei dare una spiegazione di tipo storico/sociologico della “presenza negata“ delle compositrici nella storia della musica. Fare mie le parole di Renzo Cresti, musicologo toscano, e sottolineare come, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, la donna sia stata spesso costretta a vivere al di sotto delle proprie capacità, soprattutto in ambito creativo – secondo il macro-pregiudizio per il quale la creatività è prerogativa puramente maschile – e abbia vissuto in una sorta di limbo del proprio operare, situazione che spesso in arte si traduce nella necessità di riferirsi al fare maschile, emulandolo.
Quello che vorrei farvi è invece il discorso di chi alla musica ha dedicato la propria vita per passione. Da musicista vi dico, semplicemente: ascoltatele. Ascoltate la musica di queste donne, per lungo tempo private del loro desiderio più grande: un pubblico.
E poi potrete giudicare voi stessi. Da un punto di vista tecnico se volete, se ne avete i mezzi e conoscete il linguaggio, oppure, e sarebbe la cosa migliore, da un punto di vista puramente emotivo. Insomma decidete se vi piace la loro musica oppure no. E se vi rendete conto che, anche per un solo brano, sarebbe stato un peccato non avere mai avuto l’occasione di sentirlo, allora il progetto L’altra metà della musica avrà raggiunto pienamente il suo scopo.
A tutti buon ascolto!
Claudia Brancaccio
direttrice artistica del progetto “L’altra metà della musica”