Dialogo immaginario di due musicofili sugli Ottetti di Bruch e Mendelssohn
di Luca Ciammarughi (per gentile concessione di Milano Classica)
A: Pare che Mendelssohn e Bruch siano destinati a essere abbinati!
B: In che senso?
A: Beh, se pensi, alla discografia, uno degli abbinamenti classici è Concerto per violino di Mendelssohn + Concerto per violino di Bruch.
B: Ah, certo. Ma nel caso dell’Ottetto, l’accostamento ha ancora più senso. È impossibile che Bruch non conoscesse l’Ottetto di Mendelssohn, anche se poi se ne è distaccato molto molto. Mendelssohn è assai più polifonico, mentre in Bruch domina una cantabilità che spesso si dipana su un “tappeto sonoro”.
A: Vero. Ma tu trovi che l’Ottetto di Mendelssohn sia davvero un capolavoro? Non credi che si tratti di un esempio di quel “romanticismo felice” (Felix, appunto) che non arriva alle vette metafisiche di uno Schubert o di un Brahms?
B: Non sono d’accordo. Innanzitutto, considera che Mendelssohn aveva 15 anni quando scrisse questo lavoro. Il solo terzo movimento, lo Scherzo, è miracoloso nell’anticipare quella Elfenmusik che ritroviamo poi nelle musiche di scena per il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Musica di elfi, di fate, di…
A: Cosa trovi di così profondo in questa Elfenmusik?
B: Fammi finire. Dicevo, di elfi, fate, ma anche di misteri inquietanti. Mendelssohn aveva in mente una strofa del Faust di Goethe: «Il volo delle nubi, la nebbia col suo velo / hanno un chiarore dall’alto./ L’aria nel pergolato, il vento nel camino, / tutto svanisce». In questo svanire, c’è quasi un richiamo al “vanitas vanitatum”. Certo, la musica di Mendelssohn, con le articolazioni staccate e i vivaci trilli, sembra incarnare una vita che si anima e una volontà attiva. Eppure, c’è anche qualcosa di demoniaco in questo ipercinetismo: o quantomeno di bizzarro. Inoltre, la complessità contrappuntistica rimanda a un intellettualismo che non ha nulla di naïf.
A: Sarà. Io trovo che egli utilizzi fin troppe note. Certo che se un musicista fosse pagato per il numero di note che suona, con la musica di Mendelssohn diventerebbe ricco!
B: Eppure, in questa ipertrofia di Mendelssohn io vedo anche un tormento, una sorta di horror vacui. Trovo che la sua musica sia più euforica che felice, capisci cosa intendo?
A: Qualcosa tipo il “dover giubilare” di Šostakovič?
B: Forse, ma parliamo di epoche ben diverse. Il russo doveva far finta di scrivere musica trionfalistica per accontentare il regime. Mendelssohn non ha questo problema: anzi, si potrebbe al contrario dire che la moda romantica va piuttosto nella direzione della malinconia. Ciò che intendo dire, è che Mendelssohn deve stare in continuo movimento perché non trova pace. E, anche quando le sue melodie sono radiose e i suoi ritmi incalzanti, questo movimento sembra tradire un segreto disagio.
A: Già. Pare fosse un individuo nervoso. E c’è chi dice che la sua morte prematura sia dovuta agli immensi carichi di lavoro che si sobbarcava.
B: Appunto. Come rampollo di buona famiglia, avrebbe potuto fare una vita ben più comoda. Non trovi affascinante, seppur tragica, questa parabola? Quasi un immolarsi per la musica, scrivendo partiture euforiche ma dietro cui si nasconde un tormento invisibile ai più.
A: Effettivamente è un punto di vista a cui non avevo pensato. E anche nel primo movimento ciò accade?
B: Soprattutto nel primo! I temi sembrano l’incarnazione della felicità. Eppure questa felicità non mi convince totalmente. Penso che Mendelssohn sia, per certi versi, il più vicino a Schumann, fra tutti i romantici. Non a caso i due si capivano. Schumann lodava molto quest’Ottetto, non soltanto – credo – per la perizia con cui è scritto. Prendi l’incipit: l’indicazione “Allegro moderato ma con fuoco” già ci mette di fronte a una sorta di ossimoro. Moderato, ma con fuoco. Non bisogna prenderlo alla leggera, come una cavalcata. Le note vanno ben soppesate: in ognuna ci deve essere passione. E poi, la dinamica: il motivo sinuoso, che ritornerà anche negli altri movimenti, è subito sottoposto a una sorta di “maremoto”. Si passa continuamente dal piano al forte, con un’instabilità che è poi ancor più messa in evidenza dall’abbondanza di sforzati. Per non parlare dell’uso della sincope, con un ritmo che fa mancare la terra sotto ai piedi.
A: Ma allora perché, a tuo avviso, Mendelssohn viene considerato il più classico dei romantici?
B: Semplicemente perché è il primo a voltarsi indietro e a guardare con occhio storicista il passato.Guarda ai classici, come Mozart e Haydn, e ancor più ai barocchi, come Bach. Schubert, per esempio, non è così polifonico, né fa un uso così sistematico della progressione. Ma ciò che caratterizza Mendelssohn, è il fatto di portare in queste forme legate al passato una sensibilità che in realtà è pienamente romantica. Basti osservare come, sempre nel primo movimento, molti accompagnamenti diventano protagonisti, in modo bizzarro: si pensi ai suoni ribattuti, che sembrano dar voce a improvvise ossessioni, come avverrà poi in modo più sistematico nell’ultimo Schumann. Oppure, si osservi la veemenza dello sviluppo, con una sezione infuocatissima seguita da un momento di improvvisa desolazione, cupo e malinconico.
A: Il secondo movimento, però, è più sereno.
B: Sì, ha qualcosa di italiano, anche nel ritmo, che richiama a tratti una barcarola o una siciliana. Eppure, anche in questo caso, c’è qualcosa che mi sfugge.
A: Cosa?
B: Per esempio il fatto che non ci sia una vera e propria melodia. Mendelssohn è spesso ricordato come melodista sorgivo: si pensi al tema del Concerto per violino o a molti Lieder. Eppure, a ben pensarci, spesso si tratta di temi-non temi. In questo caso, in particolare, c’è una sorta di reticenza nell’espansione lirica: compaiono piuttosto tanti frammenti motivici, che si intrecciano in modo complesso e tutt’altro che rassicurante. Il momento più espressivo, sottilmente struggente, è costituito da semplici scale discendenti, intrecciate a note lentamente ribattute. Mendelssohn è qui minimale nel materiale melodico, eppure che atmosfera di mistero sa creare!
A: E il fugato dell’ultimo movimento?
B: Avveniristico, direi. Mi viene in mente Falstaff diVerdi, anche se la scrittura e lo stile sono diversi. Commedia, ma con un fondo tragico.Qui Mendelssohn, in continuità con lo Scherzo, segue il demone del movimento, fino al parossismo. E le acciaccature ironiche hanno qualcosa di stranamente grottesco.
A: Bruch, in confronto, è insomma rassicurante.
B: Direi di sì. Eppure, a prima vista appare molto più doloroso e sentimentale! Il primo movimento si apre con quelle note lunghe del violoncello, e poi l’elegiaca melopea della viola, che sfociano su un episodio sognante e quasi esitante, costellato di silenzi e punti interrogativi, più che di affermazioni.
A: Quasi wagneriano!
B: Sì, ma è un wagnerismo da camera. Il sentimento di elevazione e la sensualità di Wagner, spesso laceranti, vengono portate in una dimensione pressoché salottiera.
A: “Salottiera” mi pare esagerato. Bruch costruisce dei lunghi climax in cui le temperature emotive si fanno altissime. Il primo violino prende spesso la parola in modo focoso, forse più ancora che in Mendelssohn.
B: Sì, è vero. Ma quasi sempre c’è, poi, una pacificazione che invece è assente in Mendelssohn. Bruch conosce la trepidazione amorosa (soprattutto nel dolcissimo secondo movimento), la febbre (nel fibrillante finale), ma arriva comunque a risolvere i conflitti in modo chiaro. C’è il dramma, c’è il pathos, ma non c’è mai la smorfia grottesca.
A: Quindi, qual è a tuo avviso il vero punto in comune fra le due composizioni?
B. Il fatto di trasformare la compagine cameristica in un’orchestra. Bruch lo fa soprattutto ricorrendo al tremolo e a effetti sonori ingegnosi; Mendelssohn, attraverso la densità polifonica e i contrasti dinamici. Non a caso, scrisse: «Questo Ottetto va suonato da tutti gli strumenti nello stile di un’orchestra sinfonica. I piani e i forti vanno rispettati attentamente e sottolineati con più forza di quanto si usa in opere di questo genere».